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Una classe della scuola media di Trebisacce si riunisce dopo 65 anni e in un libro ricostruisce la storia sociale ed economica in Alto Jonio.


Un desiderio a cui ognuno di noi ha pensato almeno una volta nella vita è di riunirsi con i vecchi compagni di classe; così, con il sopraggiunto benessere economico, è stato possibile mettere in pratica iniziative del genere in modi e forme disparate. Navigando in internet si leggono storie mosse dall’entusiasmo di singoli o di intere classi scolastiche - riunite dopo lungo tempo - nonché resoconti di serate all’insegna dell’euforia e della gioia, che bene si adattano al tema dell’incontro e al motivo per il quale ci si riunisce.
Tuttavia, dietro l’eccitazione dell’approccio iniziale, ci si imbatte anche in storie divaricate e prospettive personali incompatibili; ed è questo il motivo per cui gli incontri e le feste organizzate terminano quasi sempre allo stesso modo, con buoni propositi ma per mai più rivedersi. Tale è la regola, evidente attraverso i resoconti delle storie ascoltate in rete. Per confermarle è sempre possibile fare un giro di interviste dirette e le risposte che più di tutte sintetizzano il concetto sono due, la prima: “Anch’io ho cercato qualche antico compagno di scuola - mai prima rivisto in circa 60anni - e con alcuni ci siamo riuniti a cena.

Dopo i racconti d’epoca della prima serata ci fu un secondo incontro, durante il quale l’impaccio di trovarsi con gente quasi sconosciuta si trasformò in saluti finali senza mai più darsi appuntamento”. La seconda confidenza appare del tutto profetica: “Non ho alcuna voglia di incontrare la mia vecchia classe perché desidero mantenere il ricordo idealizzato di allora. Mi piacerebbe molto incontrare il mio compagno di banco, ma sono trascorsi ormai tanti anni e difficilmente le nostre vite di allora potrebbero ritrovarsi correlate”. Salvo eccezioni, naturalmente, a volte ci si ritrova e qualcuno convola anche a nozze…
Realtà è che la posizione psicologica di ognuno dei partecipanti all’incontro di antiche classi scolastiche - maturata nel corso delle proprie esperienze e degli anni passati - sia differente da quella degli altri. Tutti praticano relazioni diverse e hanno prospettive incomprese rispetto all’età scolastica, durante la quale le aspettative erano equivalenti anche se gestite attraverso l’appartenenza sociale delle famiglie.

Eppure, a volte si scopre che gli incontri fra vecchi compagni di classe mostrino un risvolto positivo inatteso, che non è “sic et simpliciter” quello derivante dal contatto ritrovato. E’ infatti ben evidente che le esistenze di ognuno siano talmente diverse, per le quali tutti continueranno a svolgere la propria vita senza connessione, oltre ai soliti pochi amici che non si erano mai perduti di vista. Nuovi saranno (forse) i frequenti messaggi di saluto, gli scambi augurali e le “buonanotte” date attraverso le tecnologie digitali, anche queste destinate però ad affievolirsi più o meno lentamente.

Il lato apprezzabile lo si scorge in un libro in cui - a seguito dell’incontro fra pochi vecchi compagni di classe - sono state riunite esperienze e ricordi in grado di ricostruire la realtà sociale ed economica di fine anni cinquanta, anni di post Seconda guerra mondiale, allorquando il meridione italiano lasciava partire gli ultimi emigranti in Sudamerica e non era ancora pronto a lanciarsi in massa verso il nord Europa. Erano anni di transizione durante i quali la società meridionale ribolliva tra il fare e il non fare.

Vincenzo Gerundino e Giuseppe Trebisacce sono i promotori di questo libro, il cui scenario si dipana tra Roseto, Amendolara, altri paesi del circondario e Trebisacce. Nelle pagine del libro è Vincenzo a fare la descrizione di una giornata scolastica-tipo ai tempi della sua Scuola media. Andare a scuola significava viaggiare col treno (“Sveglia alle 6.00, partenza alle 07,20 e rientro alle 13,30) ma anche occuparsi di incombenze extra - prima di recarsi a scuola - da esplicare a Trebisacce, unica sede scolastica in tutto l’Alto Jonio e luogo in cui era possibile usufruire di vari servizi: “… chi portava le scarpe dal calzolaio, chi andava in farmacia … chi in salumeria … chi in libreria…”. Giunto a scuola, Vincenzo descrive la figura del preside: “Al suo apparire, silenzio assoluto ed ingresso in ordine per classe con precedenza alle femminucce…”.
Vincenzo continua così: “Entrati, ognuno occupava il suo posto… si aspettava il prof. della prima ora … il buongiorno in piedi e subito dopo l’appello… incominciava la mattinata scolastica tra paure, per eventuale interrogazione, e serenità ed attenzione per la spiegazione dell’argomento del giorno. Tra il materiale scolastico ricordo i quaderni con copertina nera … la colla Coccoina … nella borsa … non mancava la colazione che si consumava durante l’intervallo di metà mattinata … A volte la colazione era accompagnata o sostituita dal caco … Indimenticabile il preside prof. Giovanni Laviola, in modo particolare quando comunicava con gli alunni via radio sulle varie ricorrenze nazionali e nel momento della lettura dei voti…”.

Le pagine scritte da Giuseppe Trebisacce rappresentano il canovaccio essenziale a cui altri autori che hanno partecipato alla stesura del libro avrebbero dovuto attenersi per dare il senso corretto al volume concepito. L’intervento di Trebisacce contiene né più né meno la vita reale di un ragazzo dell’Alto Jonio che, a fine anni cinquanta, frequentava la Scuola media e descriveva - quand’anche brevemente - il contesto sociale dell’epoca, ma non trascurava quello famigliare. Pagine emozionanti, laddove l’autore riesce a cogliere lo spirito medio dei ragazzi della sua epoca, quando le famiglie vivevano in bilico fra il lungo dopoguerra e la ripresa economica degli anni sessanta. E’ raro trovare in Alto Jonio una ricostruzione antropologica dell’epoca con modelli, abitudini e stili di vita in quest’area culturale mista fra Calabria e Basilicata, ma con accento napoletano.
Giuseppe Trebisacce ha descritto gli aspetti significativi e gli aneddoti della sua vita da ragazzo e lo ha fatto quasi nella consapevolezza di ricalcare un filone culturale, all’epoca di grande attualità - il “Neorealismo” - tipico della Seconda guerra mondiale e degli anni cinquanta. Erano i tempi in cui i registi Vittorio De Sica, Pietro Germi, Luchino Visconti, Roberto Rossellini, lo sceneggiatore Cesare Zavattini e numerosi altri si dedicavano a riprodurre scene di vita quotidiana delle nostre famiglie e nelle nostre campagne, da tramandare alle nuove generazioni. Le scene del gioco con palla di pietra, quella del giubbotto di panno nero, delle scarpe con le “tacce”, della fetta di pane in cartella, delle ricette in farmacia, descritte da Trebisacce richiamano alla memoria il grande cinema di quegli anni, ma anche il “realismo magico” di Federico Fellini.
Le pagine di Trebisacce ben descrivono l’economia e la società altojonica di quegli anni che avrebbero meritato le riprese di un film con attori di strada, così come allora; chi altro sarebbe oggi capace di interpretare così bene la scena dei tacchini al pascolo “che mia madre allevava per poi venderli a Natale”? Il grande errore storico fatto in questo paesaggio culturale è stato esattamente la rimozione della memoria che è causa dell’attuale marginalità sociale ed economica.

Anche Mario Torsitano si è calato appieno nella realtà sociale dell’epoca per rappresentare onestamente in sei pagine gli anni vissuti a Trebisacce prima del suo trasferimento a Firenze. Partendo da alcune fotografie come classico strumento di analisi sociologica, Mario ha raccontato aneddoti e storie d’infanzia dopo la morte dalla sua cara mamma: “Per lungo tempo sentii lo sguardo pietoso dei paesani, soprattutto delle mamme che mi vedevano ragazzino giocare scalzo per le vie del paese (…)”. In particolare, Torsitano racconta anche lui come in un film del “neorealismo” alla De Sica la sua corsa a scuola tra il suono della prima e della seconda campanella d’ingresso: “Al primo squillo in tutta fretta mi calavo giù dal bastione e attraverso il canale raggiungevo per tempo l’ingresso prima del secondo squillo”. Chi non immagina ad occhi chiusi in un film in bianco e nero questo bambino con i pantaloncini corti e la borsa in mano “volare” giù per il canale e trovarsi a scuola in pochi minuti di corsa? Dopo il trasferimento in Toscana egli ha “dimenticato in fretta quel piccolo mondo antico” e ricevuto anche delle umiliazioni, sperimentando “ben presto la inadeguatezza della preparazione scolastica che avevo ricevuto nella Scuola media di Trebisacce”, ma ha avuto il coraggio di scriverlo in queste pagine. E’ esattamente questo il problema dell’Alto Jonio calabrese, in cui la gente rimane acritica e passiva; anzi, possiede l’aggravante di “difendere” il territorio ad ogni tentativo di critica. Nei nostri paesi è diffuso un “ego” molto accentuato e questo è assolutamente deleterio ed è complicato anche parlarne; vige una mentalità povera di idee e se qualcuno ne parla in molti si offendono.
Come Giuseppe Trebisacce, anche Mario Torsitano non si allontana dal tema, limitandosi a concludere soltanto con un… “Quanti di noi, alunni di quella scuola media hanno spiccato il volo?”.

Bene, il libro che ha fornito l’occasione di queste reminiscenze storiche è “La mitica I C, Ricordi di scuola”, a cura di Giuseppe Trebisacce, Ionia Editrice, 2022. Il volume raccoglie la memoria, la nostalgia, il rimpianto di 20 studenti di Scuola media a Trebisacce nella seconda metà degli anni cinquanta. Ognuno ha “svolto” il tema a modo proprio e non è stato possibile cogliere in maniera collettiva e sistematica ciò che appare più interessante per ricostruire la realtà sociale ed economica dell’epoca a Trebisacce e nell’Alto Jonio, anche se il curatore ha riempito il vuoto con un interessante capitolo dedicato all’economia, politica amministrativa e vita quotidiana a Trebisacce negli anni ’50. Da par suo, inoltre, il curatore ha ricostruito la storia della Scuola media statale di Trebisacce e della “loro mitica classe”. Ma si sa che i ricordi “dal vivo”, quando classificati, approfonditi e interpretati insieme alle analisi dei dati statistici, sono capaci di “rendere” in maniera più esaustiva dal punto di vista antropologico.
E così, da ognuna delle storie raccontate, sebbene in maniera ridotta, si possono cogliere spunti per ricostruire la storia sociale dell’Alto Jonio, usi e costumi dell’epoca ormai dimenticati, i giochi, le consuetudini, i modi fare e di agire che descrivono una fase storica e un’area geografica trascurata dagli studiosi del tempo.

I trasporti erano già un “problema”, laddove utilissima è la descrizione di Antonietta Farina: “Per raggiungere la scuola non c’erano mezzi, per cui occorreva un’auto privata. I nostri genitori si organizzarono facendo una convenzione con il tassista per pagare di meno. (...) Durante il viaggio i ragazzi ci tiravano i capelli sfottendoci e farfugliando (…)”. Testo bellissimo e genuino di Antonietta Farina che tocca le corde dell’entusiasmo, della voglia di fare e di realizzarsi: “Io studiavo volentieri quando arrivavo a casa: prima di pranzare facevo i compiti, perché avevo in memoria la spiegazione, per paura di dimenticarla: cognizione infantile”. No Antonietta, questa era una delle buone pratiche per “rendere” nello studio e nello stesso tempo socializzare senza essere “secchioni”.
Il testo di Antonietta trascina con sé quello di Aldo Barletta, altro “viaggiatore” nella macchina da noleggio del “mitico” Beniamino “che dopo tre mesi - come dice Aldo -si ammalò di esaurimento nervoso”. Le pagine scritte da Aldo Barletta potrebbero essere titolate “Viva la sincerità” per aver descritto in maniera abbastanza compiuta e reale la società osservata attraverso i suoi occhi: ha tirato fuori i problemi sociali dell’epoca ancora agli albori, quali l’emigrazione (“… mi veniva voglia di accarezzare quelle persone che emigravano…), la raccomandazione (Ero vivace, forse terribile, almeno scolasticamente, ma con la grande sfortuna della raccomandazione”), la dignità (“Ciabattino, non andare mai…”), i primi innamoramenti “vietati”; poi gli aneddoti sulla famigerata e nostalgica “littorina”, chi non ricorda la calda calotta sul suo motore su cui almeno cinque studenti si sedevano a causa dell’affollamento del mezzo e rischiavano di scottarsi? Aldo Barletta ha parlato di sé con grande onestà e la sua descrizione è da considerarsi più adatta ad assecondare lo spirito di questo libro; tutti, probabilmente, avrebbero dovuto attenersi al medesimo spartito.
Anche Pasqualina Mortoro, come Antonietta, descrive il clima e lo spirito all’interno di quella macchina da noleggio insieme al “giocherellone Aldo Barletta al quale piaceva disturbarci…”. Pasqualina rievoca inoltre i momenti tristi della sua vita quando morì la mamma e la scuola partecipò al funerale con il preside Laviola in persona. Fu un momento triste per tutti, anche chi scrive le presenti note - ancora bambino - ricorda quella casa di Amendolara e il dolore che la morte di Giuseppina Laviola aveva provocato nell’intero paese, a causa di una malattia della quale mai prima si era parlato.

Leonardo Corrado ricorda i nomi dei docenti e la partecipazione, su invito da parte del preside Laviola, al concorso per una borsa di studio a Castrovillari. Leonardo vinse 220 mila lire e “Con quella borsa di studio e con i risparmi di mia madre potei continuare tranquillamente gli studi”: uno spaccato che permeava la realtà sociale dell’intero territorio altojonico. Solo gli anni sessanta e le rimesse degli emigrati furono foriere di riscatto economico.
La peculiarità del libro è che al suo interno è possibile leggere sia pure in maniera appena accennata aneddoti che riportano ad altri tempi, le passioni ed i giochi. Vincenzo Gerundino fa cenno al gioco a “palla tra le pietre, alla trottola, al gioco delle stacce, al quadretto, il tutto a base di bottoni, al punto che spesso ai genitori venivano a mancare bottoni ovunque”. Vincenzo disvela anche la passione per un’attività industriale tipica di Amendolara Marina fra gli anni cinquanta e sessanta, unica attività capace di occupare nei momenti di maggiore produzione fino a una decina di operai:

“Personalmente seguivo molto il lavoro per la realizzazione dei laterizi (tegole e mattoni). Occorreva una manualità eccezionale per lavorare l’argilla su forme situate su un tavolo predisposto per il lavoro: una per le tegole, l’altra per i mattoni. Le difficoltà maggiori erano nella lavorazione delle tegole; una sola pietruzza portava allo scoppio della stessa durante la cottura che avveniva in un manufatto circolare dotato al fondo di un vasto focolare alimentato da legna e segatura. Il mattone era più facile da realizzare: bastava spalmare l’argilla lavorata sulla forma a doppio rettangolo e stenderla per terra. A lungo andare ero riuscito a realizzare tegole e mattoni per la bontà degli operatori del tempo: i fratelli Esposito. In breve la lavorazione dell’argilla avveniva in una sequenza del tipo: scavo dell’argilla dal terreno argilloso, trasporto nella fossa colma d’acqua per lo scioglimento, da questa ai cumuli per la giusta asciugatura e quindi lavorazione, stesura dei laterizi sul piazzale per renderli asciutti e, dopo due giorni, materiale pronto per la consegna”.

Vincenzo fa anche cenno al gioco più attraente dell’epoca ma pericoloso: “… la scatoletta col carburo, entusiasmante quando avveniva la reazione fra acqua, carburo, scintilla e relativo scoppio”.

Il particolare più citato dagli autori in questo libro collettivo è quello dedicato alla descrizione dei giochi, anche se pochi per la verità; ma non si può ignorare il testo di Pasquale Lizzano in cui viene descritta la cattura degli uccelli attraverso il vischio:

“… una specie di colla ottenuta sciogliendo al calore del fuoco pezzettini di gomma (…) era il passatempo preferito dei ragazzi di allora, ma per me e Tonino era un vero e proprio rito. Predisponevamo tutto il giorno prima … La mattina successiva, di buon’ora, all’alba, prima che il sole sorgesse, si posizionava il ramo (…) Ci nascondevamo dietro il portone di casa mia in attesa del passo degli uccelli. Il treno delle 8.00 proveniente da Amendolara, che trasportava gli alunni che frequentavano la scuola media, era il segnale che bisognava andare. Raccoglievamo tutto in fretta, compreso il vischio che toglievamo … liberavamo gli uccelli catturati e via di corsa verso la scuola”. Chissà se gli uccelli venissero realmente liberati…

Suggestiva è la parte del “racconto” di Pasquale Lizzano legato alla scuola della sua epoca. La descrizione di una personalità autorevole come il preside Laviola è emozionante: “Lo rivedo come se fosse ieri, diritto come un monumento, sui gradini davanti il portone della scuola mentre seguiva l’entrata degli alunni in silenzio, in ordine e in fila per classi; o quando, preceduto da zio Francesco (altra figura mitica e indimenticabile della scuola media di quel periodo), con la sedia e il librone entrare in classe per leggere e commentare i voti ad uno ad uno degli alunni e per ognuno avere una parola di assenso o dissenso. Poi si alzava, sempre preceduto da zio Francesco, e passava per la lettura ad altra classe, lasciando a noi ogni commento”.

Giuseppe Caligiuri si dedica al ricordo “del bidello Francesco (…) quando la mattina, al suono della campanella, tutte le classi allineate e coperte, nell’antistante spazio dell’edificio scolastico, aspettavano l’ordine di ingresso, imposto dalla figura severa del Preside, il mite Francesco, con il suo viso atteggiato alla bonomia di un sorriso, ci rasserenava e ci dava la sensazione che, una volta entrati, tutto sarebbe andato bene”.
Tuttavia, Caligiuri fa parte del gruppo di “autori” di questo libro “per filiazione adottiva” e lo si comprende per essersi intrattenuto lungamente nella descrizione della sua famiglia e del suo papà Agostino, che pure fece parte della medesima scuola in qualità di professore di Lettere. Non solo, nel suo testo, Giuseppe Caligiuri si dedica ampiamente agli aspetti personali della vita famigliare a Trebisacce e ad Amendolara, di cui fa cenno alla “buona borghesia intellettuale, che connotava la società amendolarese … generosa e fruttuosa nelle affermazioni professionali di tanti suoi figli…” e conclude così: “… i frutti di tante affermazioni di carattere professionale, prestigiose a livello individuale … erano privi di qualsivoglia ricaduta sulla economia del territorio”, tema - questo - che meriterebbe analisi più elaborata e approfondimento critico, ma in altro contesto, non certo in un libro-documento in cui si incontrano vecchi compagni di scuola.

Giuseppe Salerno scava nei suoi ricordi per portare alla ribalta, in senso lato, i primi casi di sovraffollamento scolastico: “La classe era stata dislocata in un’aula fuori dall’istituto, in discesa a sinistra, in una casa privata che aveva un albero di gelso davanti alla porta”, medesima classe che negli anni sessanta sarebbe stata frequentata dell’autore di queste note.
Il libro risulta inoltre pervaso di aneddoti divertenti - e meno divertenti - sui compagni di classe e sui professori; fra l’altro, Giuseppe Salerno cita quello dedicato al prof. Sciré, anche professore di chi scrive, che amava ripetere: “Avete la faccia tosta che neppure la frusta… e vi piazzo 2, vi appioppo 4 e vi sbatacchio fuori” (sic!).
Tuttavia, ad una lettura attenta del libro - che invito a svolgere - si possono cogliere passaggi legati al tentativo di alcuni nel liberarsi (finalmente?) del fatidico “sassolino nelle scarpe”, ma il gesto sarebbe comprensibilmente legato al grado di soddisfazione per la propria vita e a personali conflitti interiori forse mai sopiti; è la dimostrazione che l’incontro fra vecchie classi scolastiche portano con sé esperienze diverse, ma anche ruggine, tali (esperienze e ruggine) da giustificare la teoria per la quale gli incontri fra vecchi compagni di scuola si limitano unicamente al ricordo - e non sempre. Non a caso, anche in questo “incontro” ci si è limitati ai soliti amici che mai o quasi si erano persi di vista; ma è stato utile per comporre “La mitica IC”, libro della memoria e dei ricordi di scuola a Trebisacce.

Il bilancio finale ha portato alla scoperta come qualcuno della “Mitica IC” non sia più in vita ed altri abbiano scelto di conservare “il ricordo idealizzato dell’epoca”. Ma la tipologia - in generale - risulta essere molto più ampia. Trincerandosi dietro inespresse motivazioni, altri ancora decidono scientemente di rinunciare perché frustrati. C’è chi, ad esempio, “soffre” la dicotomia diploma/laurea e - non per puro caso - il “ragionier Calboni-Fantozzi”, interpretato in un magnifico film del realismo italiano, pavido e intimorito di fronte ai laureati, senza avere cognizione delle cose di cui parlare, è il suo specchio. Chi conosce quel film realizza che il soggetto sia un disadattato sociale incapace di interagire e socializzare, anzi “analfabeta di ritorno”, persona solitaria e schiva, maldestra a possedere gli strumenti del dialogo, che abbia deciso di adottare un aforisma attribuito a Mark Twain, secondo cui: “E’ meglio stare zitti ed essere considerati stupidi, piuttosto che aprir bocca e togliere ogni dubbio”.

L’esortazione conclusiva è di leggere o rileggere questo libro per conoscere con altra prospettiva la storia di Trebisacce, nonché - anche attraverso gli interventi, a volte poetici, degli altri autori Franco Barbato, Emilia Benvenuti, Lidia Bloise, Livia Galizia, Lucia Giardino, Giuseppe Lo Fiego, Luisa Petta, Rina Romeo, Marisa Rossi, Raffaele Verni - i racconti di vita fra gli anni cinquanta e sessanta per un’utile comparazione generazionale.

di Rocco Turi

 


Editoriale del Direttore