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Si cercava disperatamente un parcheggio fra i pochi disponibili vicino alla Piazza per stare in auto in cinque o sei per ascoltare la musica "in" del tempo, i Deep Purple, i Genesis, gli Who, i Dire Streats, Neil Young, solo per citare alcuni dei mitici gruppi degli anni settanta con la loro musica rivoluzionaria, con la loro musica anticonformista, in quel grande sogno che era quello di cambiare il mondo, di distruggere tutto, di vivere nelle libertà e di abrogare ogni limite ed ogni remora del tempo. Questa era la gioventù cosentina del tempo, questi erano i "guaglioni i Piazza Kennedy", i figli di papà di una borghesia benestante che godeva di un boom economico figlio anche di una politica che in quegli anni a Cosenza aveva un peso e che riusciva anche a "sistemare" chi vantava agganci con i Riccardo Misasi, i Florindo Antoniozzi, i Cecchino Principe, i Giacomo Mancini.
 

Altri tempi, tempi di chiamate in massa ai Beni culturali con la cooperative fatte da Antoniozzi, dei posti alla Cassa di Risparmio per chiamata diretta, delle assunzioni con false invalidità per i posti riservati agli invalidi per chiamata diretta negli uffici cosentini dipendenti da vari ministeri. Anni in cui anche i ragazzi dei quartieri popolari volevano i mitici camperos, le fiammanti Golf Gti, e per avere gli oggetti del desiderio, del superfluo e del lusso, non esitavano ad entrare nel "giro", ragazzi diciottenni, ventenni, e molti di loro pagarono con la vita lo loro folle scelta. Solo nel 1981 furono diciannove i morti ammazzati a Cosenza nella prima guerra di 'ndrangheta. E quanti di questi, oggi chi pentito, chi morto, chi in galera, frequentava Piazza Kennedy.

 

Quanti facevano a gara per avere la moto più bella. Il Kawasaky Gpz 1300 sei cilindri, il Vespone con gli adesivi sulle scocche di Marilyn Monroe. Si parlava di moto da cross, il Villa, il Ktm, il Simonini, l'Swm, le Honda, le moto di enduro, le moto Fantic da trial, ed erano sempre gli stessi ad avere una, due, tre moto, a partecipare alle gare di motocross, a ritrovarsi i primi di settembre al bar "Leonetti" di Camigliatello o nei mesi estivi al "Castello" di Sangineto, al Clubbino di Diamante, al Tortuga di Cittadella o al Moana di Tortora. Ma il più "in" di tutti i locali della costa, per il quale si partiva con le moto, i "Vesponi, le "Cagiva", i Kawasaky 1300 sei cilindri, le Honde 600 Cb, le Yamaha Xt 500, anche d'inverno da Piazza Kennedy, erano le indimenticabili "Le Caravelle".

Il locale che fece la storia dei figli di papà di Piazza Kennedy dei mitici anni '80, gli anni del Boom economico, gli anni dove i soldi giravano a fiumi, gli anni della "Milano da Bere", gli anni degli "Yuppes" in Ferrari. Quante liti furiose alla "Caravelle", quante risse dove ognuno partecipava per non dimostrare alla comitiva di avere paura o di essere fifone. Quanta incoscienza, quanta speranza nel futuro, Quante volte ci si fermava ad ammirare Willy Valentini, il re della moda cosentina degli anni settanta e dei primi anni ottanta che posteggiava la sua Rolls Royce, noleggiata a Milano dalla leggendaria "Achilli Motors", la concessionaria più "in" del Paese, con le iniziali incastonate di brillanti e incollate sulla portiera, per come era la moda di quegli anni, per andare a bere uno dei formidabili aperitivi del bar "Manna" accompagnato sempre da qualche biondona mozzafiato.

Una grande voglia di vivere, di divertirsi, le grandi comitive, i gruppi delle gite in moto, la scampagnate al mare, le corse in Sila. Questi erano i mitici anni ottanta, questi erano i guaglioni di Piazza Kennedy che ballavano alle Caravelle con la disco - music che impazzava, con Le Chic Le Freak, con Gloria Gainor. Anni irripetibili che rimarranno sempre nel cuore e nell'anima dei cinquantenni di oggi, i ragazzi di allora. Anni che non ritorneranno più e che erano anni - luce distanti dagli anni senza gioia, senza glamour e senza anima che sono quelli che viviamo oggi, senza sogni e senza alcuna voglia di voler cambiare il mondo, senza la grande utopia della rivoluzione. Ed è meglio vivere con l'illusione dell'utopia che con l'amarezza della realtà. Meglio morire con l'illusione di una grande idea, della rivoluzione, che vivere una vita intera da pecora, rassegnato e senza speranza, senza l'illusione di una grande sogno, anche di quelli che non si realizzeranno mai.


Gianfranco Bonofiglio

 

 
 
 

Editoriale del Direttore