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Troppo spesso trascurato dai giornali e dalla tv, l'anniversario del 17 giugno 1983 resta scolpito nella memoria di quanti assistettero sgomenti alla scoperta traumatica di cos’erano diventate nel nostro Paese l'amministrazione della giustizia e del diritto, le carceri, le leggi. Quel giorno due procuratori napoletani in cerca di popolarità e carriera fecero una clamorosa e imponente retata di 856 arresti di presunti camorristi (ne verranno poi condannati appena un terzo) e per sorreggere la credibilità di tale inchiesta decisero di infilare nel mucchio, senza indagini e senza uno straccio di prova, un galantuomo come Enzo Tortora. Da 37 anni ricordiamo questa data insieme ai compagni del Partito radicale. Sarebbe il caso che lo facesse finalmente anche il Parlamento, approvando una legge che istituisca nel nome di Enzo la Giornata per le vittime della giustizia ingiusta.Nell'attesa, questo 17 giugno 2020 cade proprio quando il virus del Trojan ha irrimediabilmente compromesso l'onorabilità della magistratura associata. Quella, per intenderci, che per anni ha occupato il pulpito arrogante dell’indipendenza senza limiti e della superiorità morale senza critica ma che adesso dovrebbe rassegnarsi allo scomodo banco degli imputati. Dovrebbe, se non fosse per la benevolenza che ancora le viene accordata da buona parte della stampa: antropofaga con Enzo Tortora, per anni complice dei tanti Palamara e ora silente per imbarazzo, convenienza e cattiva coscienza. Sì, cattiva coscienza. La stessa che pervade quella classe politica che negli scorsi decenni ha sistematicamente avversato le battaglie referendarie di Marco Pannella e dei radicali per la separazione delle carriere dei magistrati, per l'abolizione del sistema elettorale del Csm a liste concorrenti e per l'eliminazione degli incarichi extragiudiziari. Insomma, 37 anni dopo, il dolore e l'indignazione per quel che accadde devono fare ancora i conti con un'attualità immutata, tragicamente teatrale, contaminata oltretutto dal populismo giustizialista di una società “civile” nella quale si fatica a distinguere le guardie e i ladri. Nel gennaio 1984, in una lettera a Giorgio Bocca, Enzo scriveva: «Non entro nel merito dei due pesi e delle due misure che lei descrive. Valga solo un fatto. In una recente retata (mi pare sullo scandalo dei Casinò) fu ammanettato un tale, sorpreso a tavola, a cena, con un magistrato. Ciò non significa nulla. Ma si immagina se esistesse una foto di Tortora che banchetta con Cutolo? Lei pensa non sarebbe stata considerata, come tutte le altre infamie che mi crocifiggono, la “prova schiacciante”?». E più avanti: «Ho scoperto l’Italia nella quale la dignità del cittadino viene calpestata in omaggio a quello che una volta veniva definito il “Mussolini ha sempre ragione”. Ma io alla giustizia, e non al Duce, ci credo. E affermo che a battermi, disperatamente, per la Giustizia, sono oggi io, e non quel pugno di criminali che la beffano, la disonorano, la ingannano. Le ripeto: la mia è la storia di molti. La giustizia quella vera, non deve arroccarsi in un malinteso senso di irresponsabilità: deve semplicemente liberarsi da coloro che la disonorano in vista di un prezzo, di un miserabile privilegio. Ho compreso molte, troppe cose, in questi mesi d'angoscia. Eppure mi batto. Finché avrò vita, forza, voce». In tutti questi anni, grazie alla Fondazione costituita dallo stesso Tortora con volontà testamentaria e al Partito Radicale, quella voce è stata tenuta viva, non si è mai spenta. Ma non basta, evidentemente. Ci sono oggi altri soggetti - partiti, associazioni, giornali, personalità della cultura, dell'impresa e delle professioni - che abbiano la voglia e la forza di aggiungersi, rendendola più forte? Dalla risposta a questa domanda dipende buona parte del nostro futuro. 
 
Francesca Scopelliti *Presidente Fondazione per la giustizia Enzo Tortora"
 
Fonte: www.ilriformista.it

Editoriale del Direttore