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Ci sono ossimori che pochi capiscono . Sono contraddizioni in superficie assurde ma ricche di archetipi e di simbologia .

Se qualcuno pensasse a ricordare la vita di Luigi Filosa si troverebbe davanti a un Bombacci all’inverso, un parallelo di diversità apparentemente intellegibili , eppure frutto di radici culturali molto poco frequentate. Nativo di Aprigliano, avvocato , fascista della prima ora di chiara derivazione socialista come i quadrumviri, Don Luigi, come lo chiamavano i cosentini del dopoguerra, fu l’emblema della passione e dell’onestà intellettuale di una forte generazione borghese che credette al Pnf come sbocco di una rivoluzione proletaria. Metà Proudhon , metà Marx, nel suo dna di oratore e sognatore utopistico non vi fu mai traccia della parola destra . E non a caso, quando Almirante si alleò con democrazia nazionale, espresse il suo stupore su una collocazione geometrica che definiva per assioma liberale e liberista. Federale di Cosenza, amico di Michele Bianchi, ben presto Filosa divenne antifascista di regime. Lo fece da avvocato, difendendo gratuitamente Natino La Camera in tribunale, lo fece da politico, quando si oppose a una gerarchia prepotente e post liberale che si era impadronita della sua idea facendone grimaldello di sopraffazione. Arrestato e mandato in esilio, riabilitato e rientrato nel partito, ebbe l’ardire, al congresso di Napoli del Pnf, il 1933, che :” Non esistevano duci per diritto divino” rischiando seriamente con la vita per la sua slatentizzata eresia.

Arrestato nuovamente, mandato al confino in Campania, Don Luigi il temerario si unì ai compagni comunisti per rivendicare la sua ostilità al regime, ormai diventato una perifrasi imperialista e neo conservatrice , lontano anni luce dalle sue idee. In quegli anni, raccontava Giacomo Mancini, era l’unico visitatore del suo maestro di liceo, Pietro Mancini, che andava a visitare con regolarità. Fu Salò e il ritorno all’embrione socialista a riaccendere il suo entusiasmo per il fascismo. Nel 43 la scelta di unirsi ai vecchi camerati gli costò la prigione e un processo che vide sfilare, come testimoni a suo favore, Pietro Mancini e Fausto Gullo, che ne apprezzavano l’umanità. Il sogno interrotto di Don Luigi repubblichino era un’utopia di alleanza con l’Unione Sovietica, occasione di riscatto per la sua visione proletaria e anarchica. Graziato dall’amnistia Togliatti, nel 1948 fu eletto deputato ma durò in carica solo un anno, perché un ricorso infame basato sulle disposizioni volute dal Migliore gli impediva di ricoprire incarichi istituzionali per due anni. Nel 1953 fu rieletto e stette a Montecitorio per una legislatura. Il tempi di predicare , in aula, tolleranza e rispetto verso la Cina, indicata profeticamente come terra di mercato sociale per l’Italia. Visse fino al 1981, sempre con poche lire in tasca, la nomea di tombeur de femmes, il volto emaciato del rivoluzionario che identificava nella Dc e nel modello americano il nemico da abbattere. Con una piccola casa editrice favori la nascita di periodici cattolici e di sinistra, apri una sorta di comune riservata ai giovani di ogni fascia politica, preconizzo la nascita del terrorismo con la lucida follia del suo ingegno. Cosenza gli ha intitolato una strada, a ricordo imperituro del suo essere ribelle e trasparente. La “destra” cosentina, da Giulio Adimari ad Arnaldo Golletti, ne ha ripetuto in parte le gesta, tenendo aperto quel dialogo con i “fratelli in camicia rossa” che per Filosa era il sogno di un’intera vita.

Mario Campanella

Editoriale del Direttore