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Correva l'anno 1979. Il 7 aprile tutta la stampa e le tv nazionali danno la prima notizia di una maxi -retata che in poche ore avrebbe portato il vertice delle Brigate Rosse, il laboratorio pensante in galera.

A solo un anno dall'assassinio di Aldo Moro.

Grande clamore per gli arresti ordinati dal sostituto procuratore di Padova, Pietro Calogero.

Il presunto vertice delle Brigate Rosse secondo il "Teorema Calogero" cioè da quanto elaborato nelle pagine dell'inchiesta voluta dal sostituto procuratore di Padova, è composto da docenti universitari, giornalisti, scrittori e leader di movimenti sessantottini.

Tra questi spiccano per la loro notorietà Toni Negri, docente di Dottrina dello Stato" all'Università di Padova ed indicato quale "cattivo maestro" per eccellenza.

Il capo indiscusso ed ispiratore principale di tutta la complessa galassia del movimento sovversivo in Italia, Franco Piperno, docente di fisica all'Università di Cosenza e latitante, Oreste Scalzone che insieme a Piperno ebbe un ruolo importante nelle proteste giovanili del '68, Nanni Balestrini, famoso poeta e scrittore, Luciano Ferrari Bravo, Guido Bianchini, Sandro Serafini, Alisa del Re, Giuseppe Nicotri, giornalista di Repubblica ed Espresso, Emilio Vesce, giornalista della riviste "Rosso" e "controinformazione" e tanti altri ex militanti dell'Autonomia Operaia e di Potere Operaio.

Franco Piperno, docente universitario e attivista politico

Gruppi che vennero ufficialmente sciolti nel 1973.

Ovviamente per gli inquirenti "Potere Operaio" era divenuto un gruppo clandestino.

Curiosa la tesi di partecipazione a gruppo sovversivo per la redazione di "Metropoli".

Rivista sulla quale comparve una riproduzione a fumetti della vicenda Moro. Riproduzione fumettistica che secondo gli inquirenti, in alcune vignette era ravvisabile l’esatta riproduzione della “prigione del popolo” in cui era rinchiuso Moro.

Per poi, più tardi ed in fase processuale, appurare che l’autore si era ispirato ad un semplice ed innocuo fotoromanzo di “Grand Hotel”.

Oggi, a distanza di anni, è pacifico il fatto che Toni Negri non era il capo delle Brigate Rosse.

Però in quegli anni di emergenza, in quegli anni condizionati da una guerra civile sotterranea gestita soprattutto da uno Stato parallelo la cui sola preoccupazione era "governare" quella Guerra Fredda silente fra il blocco sovietico ed il blocco Occidentale che individuava nell'Italia un paese strategico sul piano geografico e di frontiera per impedire strategicamente l'avanzata del blocco comunista, tutto poteva accadere.

Anche che una inchiesta a dir poco fantasiosa e basata su indizi anche molto deboli potesse trasformarsi in un processo "simbolo" del periodo dell'emergenza.

Il processo 7 aprile.

Una vera e propria "Eclissi del diritto", per usare un termine caro all'On. Giacomo Mancini, che tanto si impegnò per dimostrare l'infondatezza delle accuse e che utilizzò per dare il titolo ad un suo libro sulla vicenda edito da "Lerici Edizioni" nel quale si riassume la sua forte azione garantista.

" 7 Aprile - eclissi del Diritto - Itinerario di un Garantista" di Giacomo Mancini "Lerici Edizione" pubblicato nel 1982

E le vicende relative al processo " 7 aprile " furono anche motivazione dell'avviso di garanzia che pervenne a Giacomo Mancini il 20 ottobre del 1982 nel quale il Giudice Istruttore del Tribunale di Roma, Ferdinando Imposimato, lo accusava "del delitto di cui agli artt. 270 e 306 C.P. per aver partecipato ad una associazione sovversiva costituita in banda armata ricollegabile ad c.d. Progetto Metropoli, avente finalità di sovvertire violentemente gli ordinamenti economici e sociali costituiti nello Stato mediante la egemonizzazione di tutte le organizzazioni eversive armate operanti in Italia, mantenendo frequenti e diretti collegamenti con i vertici della banda e concorrendo, tra l'altro, al finanziamento della stessa attraverso il Cerpet, (sedicente Comitato per la Ricerca e Programmazione Economia e Territoriale), associazione sorta con finalità apparentemente lecite di studio e di ricerca socio – economica nel campo del lavoro intellettuale, ma in realtà protesa unicamente al reperimento di fondi per l'attuazione dei piani della banda”.

Una accusa articolata che finì nel nulla e che non ebbe seguito alcuno.

Probabilmente contribuì a quella leggenda metropolitana, anch'essa priva di qualsiasi fondamento, che voleva in Giacomo Mancini il “Grande Vecchio” dell'eversione italiana.

Una figura leggendaria, mai esistita, che i teorici del complottismo avrebbero voluto essere la figura ispiratrice di una intera epoca della storia d'Italia, quella storia piene di ombre mai chiarite, neanche a tanti anni di distanza.

E nell'intenso rapporto fra Franco Piperno e Giacomo Mancini non si può non citare il discorso che fece Franco Piperno nell'ambito della manifestazione spontanea che venne organizzata nella città Bruzia quando lo stesso Piperno, dopo undici mesi di prigionia a Rebibbia, venne scarcerato.

Ritornato a Cosenza Piperno trova una grande accoglienza di popolo con un corteo che attraversa la città con la banda musicale con la sinistra garantista alla guida del corteo.

Si doveva tenere un incontro nella sala del Comune ma i tanti presenti non vi entrano e si decide di montare degli altoparlanti fuori dal comune nella piazza.

Piperno con passione parlerà dal balcone. Tante le polemiche anche nazionali su quel discorso.

Si giunge a paragonare il balcone di Cosenza al balcone di Piazza Venezia quando parlò Mussolini in un editoriale del Corriere della Sera a firma di Leo Valiani, figura storica della Resistenza nel Partito d'Azione.

Questa era la Cosenza del garantismo e del riformismo socialista.

Questa era la Cosenza di un Tempo. La Cosenza che fu.

La Cosenza della politica con la "P" maiuscola e del pensiero.

Una Cosenza che oggi non esiste più.

Redazione


Editoriale del Direttore