Nell'illustrare la storia della criminalità cosentina si deve partire dall'omicidio di Luigi Palermo, avvenuta nel 1977 che ha segnato un chiaro spartiacque ed un momento di forte evoluzione del sistema criminale. Da quel momento si assiste ad una dura e cruenta guerra di mafia che non risparmia nessuno.

Nel solo 1981 nella sola città di Cosenza si consumano ben sedici omicidi. Il 28 giugno del 1982 viene ucciso nel suo studio il noto e stimato penalista Silvio Sesti. L’omicidio viene commesso da due killer napoletani legati alla Nco, Nuova Camorra Organizzata, di Don Raffaele Cutolo., morto in carcere a 79 anni dopo una detenzione durata praticamente una vita. In quegli anni il clan Pino con il suo alleato Basile che agiva sul basso tirreno cosentino, disponevano di Killer della camorra garantendo, in cambio delle loro prestazioni, periodi di latitanza ed assistenza. Periodi di latitanza offerti soprattutto nelle montagne di Falconara Albanese. Alcuni pentiti hanno indicato in Franco Pino il mandante dell'omicidio Sesti, lo stesso Franco Pino nelle dichiarazioni rese da pentito affermò che la decisione di eliminare l'avvocato fu presa autonomamente dal Nelso Basile ucciso il 20 febbraio del 1983 a San Lucido nella guerra di mafia che vedeva contrapposti clan del tirreno. Il 1983 si apre con l'omicidio avvenuto il 28 gennaio di Mariano Muglia, legato al clan Perna e sospettato di voler trasmigrare nel clan avversario. Nello stesso anno subisce un attentato Francesco Pagano, legato a Franco Pino. Svanisce nel nulla con il metodo della lupara bianca, Maurizio Valder. Si assiste ad altri omicidi fino al 1985, anno in cui si consuma a Cosenza il primo delitto eccellente che pone la stessa città sulla ribalta nazionale e che dimostra in modo inequivocabile a che livello sia giunto il potere e la tracotanza delle organizzazioni criminali imperanti sul territorio. Il 12 marzo 1985 subisce un attentato che gli costerà la vita il direttore del carcere di Via Popilia Sergio Cosmai Un funzionario statale ligio al suo dovere che, senza alcuna scorta e protezione, aveva imposto delle regole all'interno del penitenziario. Nativo di Bisceglie, comune pugliese, Cosmai cadde sotto il fuoco di un commando composto dai fratelli Dario e Nicola Notargiacomo e dai fratelli Stefano e Giuseppe Bartolomeo. Cosmai muore in una clinica specialistica della sua regione ed il processo di omicidio viene celebrato a Trani. In primo grado si assiste a condanne all'ergastolo. In appello gli imputati vengono assolti. Su tale assoluzione rimane l'ombra di alcuni pentiti che affermarono di aver consegnato settanta milioni delle vecchie lire destinate ad un importante personaggio pugliese per addomesticare la sentenza. Dichiarazioni rimaste tali e mai suffragate da prove certe. Essendo la sentenza d'assoluzione passata in giudicato, e non essendo possibile modificarla l'omicidio Cosmai rimase impunito con la consapevolezza che una assurda norma giuridica non consente l'individuazione del mandante dell'efferato atto criminale.
I fratelli Bartolomeo moriranno nella guerra di mafia. I fratelli Notargiacomo vivono con il regime di protezione riservato ai collaboratori di giustizia. L’omicidio Cosmai attira i riflettori nazionali su Cosenza e questo impone una serie di contromisure da parte di chi gestiva le consorterie mafiose. Da quel momento si intensificano i rapporti e le azioni mirate a far decollare una tregua armata fra i fronti contrapposti dei clan in guerra. Una tregua che nasce nel 1986 e che diviene pace vera e propria in un incontro fra i capi clan nel 1990. La tregua impone dei garanti al di sopra delle parti. La funzione di garanti per la tregua viene assunta da due capi storici della 'ndrangheta calabrese, Giuseppe Pesce di Rosarno e Giuseppe Piromalli di Gioia Tauro. Personaggi che hanno fatto la storia della 'ndrangheta calabrese. Un periodo, quello degli anni ottanta che si identifica anche a Cosenza con omicidi eccellenti. La morte dell'avvocato Sesti e del direttore del carcere Cosmai ben chiariscono il livello di evoluzione di una criminalità che si è trasformata in una terribile e temibile organizzazione in grado di infiltrarsi nell'economia cittadina, in grado di divenire imprenditrice ed in grado di incutere timore e paura. Svanisce la leggenda voluta da buona parte della classe politica di allora per la quale Cosenza era immune dalla piovra mafiosa e che la mafia doveva identificarsi solo in alcune zone della provincia di Reggio Calabria. La tesi di Cosenza «isola felice» è in realtà dura a morire considerando che ancora oggi vi è chi si ostina a sottovalutare il fenomeno criminale. Ma nel 1986 avviene un qualcosa che ben chiarisce, soprattutto alla luce di quanto avvenne in seguito, qual'era il clima sociale ed il consenso «esterno» che sosteneva la criminalità cittadina. Agli inizi del 1986 vengono ritrovati i corpi di Francesco Lenti e di Marcello Gigliotti, uccisi dai loro stessi amici perché accusati di «agire» in proprio senza l'assenso del capo. Antonio De Rose, appartenente al clan Pino ed amico intimo di Lenti e Gigliotti sospettando di dover subire la stessa triste sorte, decide di collaborare con la giustizia. Il 10 marzo di quell'anno De Rose si presenta ai carabinieri e racconta tutta una serie di particolari inediti ed interessanti. Svela di essere stato affiliato in carcere con il grado di picciotto, il primo scalino della gerarchia della 'ndrangheta. Parla anche di Pietro Pino, fratello di Franco Pino. Un personaggio avvolto da un alone di mistero. Riconosciuto da tutti come persona dotata di grande intelligenza e di enormi capacità di mediazione, nessuno è mai riuscito a capire quale fosse il vero ruolo di Pietro Pino. Nella sua cella personaggi come Umberto Bellocco di Rosarno e Nino Gangemi di Gioia Tauro avevano con lui un rapporto alla pari. Nessuno sa dove sia. De Rose è il primo a definire gli intrecci fra i vari clan che agivano nella provincia di Cosenza, fu il primo a raccontare i rapporti strettissimi di Franco Pino con i cutoliani, considerando che lo stesso boss venne arrestato a Napoli in un summit organizzato da Don Raffaele Cutolo. Fu il primo a svelare lo scambio di killer e di azionisti fra la Nco cutoliana e la 'ndrangheta cosentina. Le rilevazioni di De Rose determinarono numerosissimi arresti ma la gestione di tale inchiesta fu travagliata e complicatissima anche perché allora non esisteva alcuna normativa che definisse come trattare le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Un pentito «ad litteram» che indusse i capi a mediare e ricercare le condizioni per una tregua. Tregua che condusse ad una grande espansione economica ed imprenditoriale delle organizzazioni criminali. Inutile precisare che in quel clima di complicità diffuse e di connivenze più o meno evidenti tutti coloro i quali vennero arrestati sulle dichiarazioni del collaborante De Rose vennero, dopo alcuni giorni, rilasciati tranne poi poter osservare, negli anni successivi, che i racconti dei numerosi pentiti cosentini combaciavano perfettamente con le dichiarazione del De Rose che ritrattò tutte le dichiarazioni fatte avendo capito di aver osato troppo rispetto ai tempi. Lo stesso De Rose non ottenne in seguito alcun riconoscimento di collaborante e venne abbandonato al suo destino. Del resto Gaspare Pisciotta, che fu il primo collaborante della storia della mafia siciliana venne avvelenato e fatto passare per pazzo. E non solo i fatti descritti da De Rose non determinarono alcunché dato il proscioglimento in fase istruttoria degli imputati da ogni accusa ma addirittura il reato di associazione mafiosa subisce la derubricazione in associazione a delinquere semplice. Tale vicenda ben chiarisce il clima di connivenze, di coperture, di ambiguità di quegli anni. Il cosiddetto livello dei colletti bianchi, da sempre impunito, riusciva, probabilmente, a condizionare tutto e tutti. L’illegalità diffusa ed ambientale, le complicità esterne mai chiarite hanno costituito l'asse portante e determinante per la strutturazione di una mafia imprenditrice che nel mondo della politica ritrova le giuste complicità per poter agire indisturbata. In quel periodo si possono citare solo due iniziative degne di nota. Il convegno «Gangsters a Cosenza» svoltosi il 10 gennaio del 1982 con la partecipazione dell'Università della Calabria e magistratura democratica ed il lavoro svolto dal centro di ricerca e documentazione sul fenomeno mafioso dell'Università di Arcavacata, allora sorretto dal professore Pino Arlacchi, noto studioso del fenomeno criminale, «Criminalità a Cosenza e provincia» commissionato dall'amministrazione provinciale di Cosenza nel 1982. Nei due lavori si intravedono le basi analitiche che ben definiscono gli scenari futuri contraddistinti da una criminalità sempre più organizzata e ben addentrata nel mondo economico ed imprenditoriale. 
Gianfranco Bonofiglio